Regione

“Il salice del borgo antico” raccolta di poesie di Anna Cellaro

 

​ 

​Gioia – La Voce del Paese 

È stata pubblicata da poche settimane la raccolta di poesie «Il salice del borgo antico» (Youcanprint) della laertina Anna Cellaro, inserita lo scorso anno dallo studioso e poeta Daniele Giancane tra le poetesse emergenti pugliesi nella sua antologia «La poesia delle donne in Puglia», uscita lo scorso anno per «Tabula fati». Lo stesso autore puntualizza che ogni antologia è necessariamente incompleta; la sua opera è solo un punto di partenza per un censimento delle voci femminili della poesia pugliese, e sono tante quelle ancora poco conosciute, che spera altri possano negli anni portare avanti e arricchire.

Anna Cellaro, di professione avvocata, è tra i fondatori della associazione culturale CAVE aps (Cultura Ambiente Valore Emozione) che si candida a fare da traino per una rete culturale della Terra delle Gravine.

Ho avuto qualche difficoltà a entrare nel suo mondo poetico, caratterizzato da composizioni prive di titolo, cosa che complica l’individuazione di ogni singolo componimento, e a volte con versi molto lunghi, impaginati con un inusuale allineamento a destra (bandiera rovesciata), cosa che complica a volte la lettura, e ricchi di parole inusuali, termini tecnici del nostro mondo contadino che abbiamo forse dimenticato. Dopo l’iniziale perplessità, munito di un buon dizionario, ho affrontato con coraggio le parole più desuete; un esercizio culturale che dovremmo recuperare, per ridare il giusto peso ad ogni parola.

Termini come «petricore» e «geosmina», che francamente non conoscevo, mi hanno in un primo tempo spiazzato; non sapevo che esistesse un termine specifico per indicare il «profumo della pioggia sulla terra asciutta» o quel particolare «sentore di terra, fungo e muffa».

Completano il testo la prefazione dello scrittore e poeta tarantino Cosimo Rodia che analizza nel dettaglio con competenza i singoli componimenti e la postfazione di «Rosalba Fantastico di Kastrom», artista che ha realizzato anche lo splendido ritratto di Anna posto in quarta di copertina e le immagini contenute nel testo. Rimando ai loro preziosi contributi chi voglia immergersi in un’analisi puntuale del testo; rischierei di ripetere quanto già scritto da loro, sicuramente con maggiore competenza.

Mi limiterò a qualche breve considerazione, vincendo la  mia naturale ritrosia a commentare le poesie altrui, guidato solo dal cuore e non da considerazioni tecniche, di cui forse non ho le necessarie competenze, identificando i componimenti dal primo verso, cose si usa fare comunemente con quelli privi di titolo. Negli ultimi anni ho notato un aumento di questa tendenza a non attribuire un nome ai componimenti, lasciando al lettore l’onere di «battezzare» ogni poesia in base a quanto il testo gli trasmette. Personalmente preferisco poter dare un titolo, un’identità precisa a ogni poesia, che altrimenti mi sembrerebbe incompleta. Sarà comunque il lettore a stabilire la modalità più consona ai suoi gusti; è giusto che ogni poeta possa esprimere liberamente il proprio modo di vedere, anche sperimentando forme tipografiche diverse e inconsuete.

La raccolta si apre con «Ci sono i miei occhi di bambina» che forse riassume in breve lo spirito dell’opera, lo sguardo trasognato e nostalgico di una bambina di fronte al mondo agrario del passato, che le ricorda le figure care dei genitori, dei nonni, le sue radici, le finestre a cui sono rimasti  appesi i suoi sogni.

In questa poesia compare anche il salice piangente piantato da suo padre da cui la raccolta prende il nome, quello che maestoso imperava accanto alla piccola scalinata della sua casetta, sfidato ogni primavera dalle soavi sfumature di rosa del piccolo pesco.

Anna presenta tanti piccoli quadri rurali, istantanee di vita vissuta o sognata. Spesso usa un linguaggio volutamente criptico, come se non volesse svelare completamente la propria anima. Non è un libro da leggere distrattamente, ogni poesia merita una lettura attenta, a volte una rilettura, per poter essere compresa, assaporata pienamente.

Personalmente ho preferito i componimenti più brevi, dove lo scorcio di vita viene presentato con poche rapide pennellate e non è necessario rileggere per riuscire a incastonare con accuratezza i tanti elementi che l’autrice inserisce, chiamandoli con termini forse per noi ormai desueti come «murice», «sacara», etc.

Un interessante operazione di recupero delle nostre radici, di quella cultura agreste da cui tutti, bene o male, discendiamo, ma che spesso cancelliamo dalla nostra memoria, senza le esagerazioni di alcuni autori moderni che solo per moda rievocano un passato che non hanno mai vissuto. Sembra a volte che un autore del Sud debba parlare per forza solo di «masserie, cafoni e briganti» per risultare credibile.

Molto bella «S’incurva il vecchio alla terra» in cui l’autrice rievoca il mestiere antico del «mastro parietaro» che Anna definisce «l’orafo delle strade», che raccoglie le pietre che affiorano dal terreno e poi le incastra sapientemente per realizzare l’acciottolato delle strade rurali o dei nostri caratteristici muretti a secco.

In «Ci sono vicoli nel mondo» riemergono antichi suoni, cingoli di carri e passi antichi che attraversano un paesaggio fiabesco, tra petali di peonia, foglie d’acanto e cardi spinosi. La memoria del padre, rappresentata dai «mosaici di mozziconi» che penetrano nelle ossa riemerge in vari testi insieme a quella del nonno, rappresentato nel gesto di affondare il pollice nella morbida buccia di una succosa arancia o nel ritorno a casa con un avanzo di pane  e della nonna seduta sulla soglia a trastullare una foglia con la gonna.

Trova spazio anche una originale rilettura del cammino dei re Magi in «S’intrecciano» e una sorta di acrostico con le lettere del suo nome e cognome, evidenziate in maiuscolo all’interno dei versi e non come prima parola, come solitamente avviene,  in «All’ombra l’Afa ventilata». Peccato che in fase di impaginazione sia stata contrassegnata una N si troppo.

L’autrice è un’attenta osservatrice, capace di fissare le scene nei particolari; non mi sembra un’anima solitaria assopita come lei stessa si descrive in «Sotto il lampione».

Le memorie del mondo e delle sue sofferenze entrano nei testi con «Nella giacca grande ti sei chiusa», dedicata a una ragazza polacca di 14 anni, vittima dell’Olocausto ad Auschwitz, di cui ci restano solo le foto scattate nel campo da un altro detenuto e con la struggente e tristemente attuale «Kiev 2022» che conclude questa sua prima silloge.

Mi sono limitato a citare solo alcune poesie delle oltre quaranta che compongono la raccolta, un po’ per non appesantire questo breve assaggio, un po’ per lasciare al lettore il gusto della lettura solitaria, quella che ci fa entrare nei versi di un poeta e assaporare le emozioni che ha cercato di condividere.

Giovanni Capotorto

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *